1° agosto 1976. Niki tornò al Nūrburgring con la 312T2, evoluzione della monoposto con cui aveva dominato l’anno precedente, e dopo sette gare di campionato in cui aveva proseguito incontrastato il suo dominio. All’avvio del Gran Premio di Germania, era primo in classifica con 61 punti. Secondo era l’inglese James Hunt, l’unico peraltro capace di stare al suo passo, con 29. Sembrava non esserci partita.
Il destino era in agguato alla Bergwerk. La gara era stata rinviata a causa della necessità di riparare i danni provocati nel corso di quella di una categoria inferiore svoltasi in mattinata, quanto bastava per cominciare dopo che una fitta pioggia si era abbattuta sul circuito. Niki Lauda era tra coloro che avevano montato gomme da pioggia, ma al via la pioggia si era interrotta, favorendo le gomme slick. Il leader del mondiale aveva perso subito posizioni, era rientrato al secondo giro, aveva cambiato gomme ed era ripartito tirando come un forsennato per riprendere la testa della corsa che gli era sfuggita, malgrado il suo distacco in classifica generale gli consentisse anche di assorbire tranquillamente una giornata no.
La Bergwerk era nel punto più lontano dai box. Fu lì che Niki perse il controllo della macchina slittando su un cordolo, schiantandosi contro la roccia retrostante al guardrail, rimbalzando in mezzo alla pista con la vettura subito in fiamme. Dove fu centrato dalle sopraggiungenti monoposto di Harald Ertl, Guy Edwards e Brett Lunger. Un’ecatombe dalle conseguenze drammatiche. Svenuto, senza il casco che gli era saltato via nell’urto, avvolto dalle fiamme e dai vapori della combustione, il pilota della Ferrari sarebbe stato condannato a morte se non fosse stato prontamente soccorso oltre che dai tre suddetti anche dall’italiano Arturo Merzario, arrivato alla curva fatale subito dopo.
Arturo aveva nozioni di pronto soccorso. Durante il servizio militare, raccontò poi, aveva fatto un corso di massaggio cardiaco e respirazione artificiale, una di quelle cose che si facevano per avere qualche giorno di licenza in più, senza immaginare che prima o poi potevano magari tornare drammaticamente utili. Fu lui a tenere in vita Niki strappandolo al suo abitacolo divenuto una trappola mortale e rianimando le sue funzioni vitali fino all’arrivo dei soccorsi.
Quei quaranta secondi abbondanti tra le fiamme deturparono per sempre il volto del campione del mondo, che una volta tornato in pubblico ed alle corse avrebbe sempre esibito le sue ferite con nonchalance. «Quando mia moglie (Marlene Kraus) mi vide per la prima volta dopo l’incidente, svenne. Capii così che non ero messo bene. Col tempo, le rughe hanno nascosto le cicatrici, e mi ci sono abituato», raccontò in seguito. «Mi sono sottoposto alla chirurgia soltanto per migliorare la mia capacità visiva. La cosmesi chirurgica è noiosa e costosa, tutto ciò che poteva fare era darmi un’altra faccia. Mi sono preoccupato solo che i miei occhi funzionassero, di tutto il resto non m’importava». Niki Lauda è morto nella notte tra il 20 e il 21 maggio 2019, a causa di un’insufficienza renale.
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